Scienze della Comunicazione: non tutte le facoltà sono uguali

“Non iscrivetevi a scienze della comunicazione: non fate questo tragico errore che paghereste per il resto della vita”. Con queste parole qualche giorno fa Bruno Vespa concludeva una trasmissione di Porta a Porta dedicata ai giovani. La ministra Gelmini domenica 5 aprile veniva citata in un titolo sul Corriere della sera per aver affermato: “meglio i tecnici dei laureati in scienze della comunicazione”.

Che ci sia un gran bisogno di tecnici nel nostro Paese è indubbio, ma perché in contrapposizione proprio ai laureati in comunicazione?
Da dove viene la recente tendenza a scoraggiare i giovani a intraprendere questo percorso di studi? Si tratta forse di una consapevolezza diffusa di un eccesso di laureati in comunicazione rispetto all’offerta corrispondente? O si tratta piuttosto della consapevolezza di una qualità scadente generalizzata dei corsi di laurea in comunicazione rispetto ad altri percorsi umanistici o tecnici?

All’aspetto quantitativo rispondono i risultati delle ricerche di Almalaurea secondo cui il livello di occupazione dei laureati in comunicazione dopo un anno dal termine degli studi è superiore a quello della maggior parte degli altri percorsi umanistici anche se inferiori a quelli di ingegneria. A titolo d’esempio nel 2008 i laureati di secondo livello occupati in giurisprudenza erano circa il 51%, in comunicazione il 78% e in ingegneria il 93%.

Rispondono inoltre i risultati di indagini condotte in mezzo mondo, presentati al convegno internazionale di Euprera (European Public Relations Education and Research Association) nell’ottobre dello scorso anno all’Università IULM, secondo le quali il settore della comunicazione nelle grandi imprese private e pubbliche sta crescendo sia come numero di occupati sia come importanza relativa.

C’è infine un ultimo aspetto di tipo quantitativo da considerare: da due anni a questa parte la tendenza alla crescita dei laureati nelle varie branche di scienza della comunicazione si è arrestata fino a invertirsi e diventare da quest’anno decrescente.
Se questi dati tendono a far pensare che non possano essere le tendenze del mercato del lavoro, ovvero l’esistenza di un eccesso di laureati in comunicazione, a spingere persone autorevoli a raccomandare di evitare le lauree in scienze della comunicazione, val la pena di considerare le valutazioni sulla loro qualità. Sono davvero così scadenti?

In effetti questo è stato un punto debole nella fase di forte espansione quantitativa dei corsi di laurea in comunicazione iniziata alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. In molti casi infatti a vecchi corsi di laurea di tipo sociologico, letterario o storico filosofico, è stata attribuita l’etichetta “comunicazione” semplicemente aggiungendo uno o due insegnamenti specialistici: questo perché la domanda di istruzione degli studenti nel campo della comunicazione era molto forte.

Il cambiamento è iniziato intorno al 2005 quando si è diffusa la consapevolezza che non bastavano due insegnamenti in comunicazione a formare un laureato specializzato in quel campo. Proprio in quell’anno la Ferpi (Federazione italiana delle relazioni pubbliche) ha istituito un programma di accreditamento dei corsi di laurea in relazioni pubbliche e comunicazione d’impresa attribuendo un bollino blu a quelli che contenevano un adeguato numero di insegnamenti specialistici e professionalizzanti. Con l’inversione della tendenza quantitativa anche la qualità dei corsi di laurea in comunicazione è dunque migliorata sensibilmente.

Tutto bene dunque? Possiamo consigliare ai giovanni di iscriversi tranquillamente a uno dei tanti corsi di laurea in comunicazione? Direi proprio di no, anche se, invece di aderire al consiglio superficiale e generico di “non fare il tragico errore” di iscriversi a un corso di laurea in comunicazione, mi sentirei piuttosto di consigliare ai giovani interessati a questa professione di scegliere in modo molto oculato, iscrivendosi solo a quei corsi di laurea che offrono percorsi di qualità e professionalizzanti, evitando con cura quelli che, magari sotto casa, la comunicazione ce l’hanno solo nel titolo.

Emanuele Invernizzi
tratto da Il Sole 24 Ore del 9 aprile 2009

Commenti

  1. Mi viene un dubbio: che le parole di Vespa non nascondano un tentativo corporativo di limitare ulteriormente l'accesso ad una professione. Risorse giovani, adeguatamente formate, metterebbero ulteriormente in luce il livello dell'informazione e della comunicazione nel nostro Paese. Un rischio troppo grande, soprattutto per un paese dove si specula sulle difficoltà della gente (vedi servizi sul terremoto in Abruzzo) e si nascondono le pressioni fatte su un canale privato per impedire la proiezione di un film scomodo.

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  2. http://elledielle.wordpress.com/2011/10/12/lettera-aperta-a-bruno-vespa-a-porta-a-posta-ancora-contro-scienze-della-comunicazione/
    ....ancora a Porta a Porta si parla non certo bene di scienze della comunicazione...pretendiamo delle risposte

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  3. ... ma vogliamo cominciare a considerare Scienze della Comunicazione e le professioni legate un mestiere/laurea come tutti gli altri?

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